By Published On: 31/12/2023Categories: LibriTags:

Durante l’ultima seduta [la dottoressa Mahjoub] mi aveva spronata a “farmi da genitore”. In mezzo a tutti quegli elefanti mi era sembrata una buona idea, praticabile, perfino divertente. Avrei parlato con la piccola Rachel; con voce sommessa e con tono empatico le avrei detto che sarebbe andato tutto bene. Mi sarei fatta madre di me stessa.

Melissa Broder, “Affamata”

Sono giorni che mi frullano in testa queste parole, così come l’idea di scrivere questo post. Tirando un po’ le somme di questo 2023, infatti, ho messo a fuoco una parola ben precisa e luminosa nei miei pensieri, a conclusione di un anno di terapia molto bello e molto intenso.

La parola di quest’anno è “perdono”, e ho pensato di condividere qualche riflessione che magari potrà essere utile ad altre persone che stanno vivendo una fase simile della vita.

Parto dalla frase di Mellssa Broder in “Affamata” perché questo è stato uno dei grandi temi degli ultimi mesi, e forse è anche il segno definitivo di un passaggio all’età adulta, guadagnata con grande fatica sotto forma di una raggiante consapevolezza.

Uso parole luminose perché sento realmente la mia aura risplendere dopo tre anni lunghi e difficili in cui ho cercato di ricostruire buona parte della mia vita, andando a fondo di questioni dolorose come immergendomi in apnea: quando sono risalita in superficie, le cose non erano più come le avevo lasciate, io non ero più la stessa di prima.

E parte di questa crescita ha avuto a che fare con il farmi madre di me stessa, proprio come dice la dottoressa Mahjoub alla sua paziente Rachel: dentro ci ho rivisto lunghe sedute di psicoterapia passate a tentare di cambiare persone e situazioni in cerca di giustizia e di qualcuno che mi difendesse.

Ma la verità è che mentre per tanti anni ho solo desiderato che qualcuno difendesse la bambina che sono stata da tutte le cose brutte che le sono state fatte e dette, non mi sono resa conto di essere diventata io stessa la persona in grado di difendermi, accogliermi, amarmi e sostenermi.

È stata la liberazione più grande di tutte, il perdono definitivo di cui avevo bisogno. Perdono verso le cose per come sono andate, e verso me stessa per non aver saputo fare o dire di più, o di meglio, per non avere avuto le parole o gli strumenti quando sarebbero serviti, per riconoscere che nessuno me li aveva mai dati. Per dirmi che non è stata colpa mia.

E allora sì, sono diventata madre di me stessa, o forse figlia, come fa Rachel a fine libro.

La dottoressa Mahjoub mi diceva sempre: Si faccia da madre, si faccia da genitore.

Mi sembrava impossibile. Non sapevo fare la madre, tantomeno a me stessa. E invece, farsi da figlia? Magari potevo farmi da figlia?

[…]

«Mi dispiace, figlia mia» avevo detto, con le lacrime agli occhi. «Mi dispiace se hai pensato che ti avessi abbandonata».

«Non fa niente, mamma» avevo risposto. «Ci sei sempre stata. Ero io che non riuscivo a trovarti».

Rendendomi conto che stavo parlando da sola, avevo avuto il sospetto di essere definitivamente impazzita.

«Figliola figliola figliola figliola figliola» avevo detto.

«Sì, mamma» avevo risposto. «Promettimi che non mi lascerai più. Insegnami a sapere che ci sei sempre. Insegnami a dimostrarti la gioia che provo quando sono con te, e dimmi che la mia gioia ti rende felice».

«Oh, figlia mia» avevo detto. «Ti dimenticherai che ci sono. Gli esseri umani sono fatti così, dimenticano. Ma mi hai ritrovata una volta, quindi mi ritroverai di nuovo, perché io ci sono sempre. Il mondo continuerà a ferirti. Tu continuerai a ferirti. E quando succederà, ricordati di me. Ti inginocchierai, ti abbraccerai, e sarai di nuovo tua figlia».

Melissa Broder, “Affamata”

Quest’anno ho imparato altre due lezioni molto belle: hanno a che fare con la fiducia e la condivisione. Sono parole importanti e significative, che prendono forma dentro di me associate a un’esperienza precisa, quella della terapia di gruppo.

Per la prima metà dell’anno sarei voluta scappare e ho vissuto ogni incontro con insofferenza, per la seconda parte avrei voluto che non finisse mai, e forse non voglio che finisca proprio ora che invece dentro di me sento prendere forma la conclusione di un lungo percorso.


Ci sono stati tre libri salvifici nel mio 2023 che mi hanno dato anche idea e ispirazione e coraggio per scrivere questo post, tre libri che parlano di dolori immensi e di come sopravvivere al giorno, all’anno o periodo più brutto della tua vita, per quanto intenso e nero possa essere (“Cose che non si raccontano” di Antonella Lattanzi; “La vita di chi resta” di Matteo B. Bianchi; “Fame. Storia del mio corpo” di Roxane Gay).

Non ho la presunzione di associare il mio dolore a uno di quelli di cui si parla in questi libri (aborto, suicidio, stupro), ma voglio invece onorare il gesto di autori e autrici che hanno mostrato la propria vulnerabilità: ci vuole un coraggio infinito per essere come nudi nella stanza, quando la stanza è fatta da migliaia e forse milioni di estranei pronti a tuffarsi nelle pagine della tua vita con giudizio severo e implacabile.

E allora, io che non ho milioni di lettori, ho pensato che questo è il minimo che potessi fare: essere onesta, e vulnerabile, e coraggiosa. Parlare di dolore e di momenti difficili, di salute mentale, del crescere e del diventare adulti.

Il 2023 è stato un buon anno e sono felice di averlo vissuto.

Il mio miglior augurio a voi che mi leggete e a me stessa è di non smettere mai di crescere e di diventare i migliori genitori possibili di noi stessi: lo dobbiamo a chi siamo stati e, anche, a chi saremo.

Federica

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